Mobilità fa rima con design e con il compasso d’oro

Nel museo milanese dell’Adi tanti oggetti legati alle due e quattro ruote. Il presidente Galimberti: “In tanti, compreso Gio Ponti si sono cimentati. Poi alla bellezza si è aggiunta la funzione: e le idee sono diventate realtà”

Museo dell'ADI

Museo dell'ADI

Il Compasso d’Oro, il massimo premio al design italiano, ha una nuova casa. Il suo museo, in via Bramante a Milano, sorge in una ex centrale Enel, che ospita la collezione storica degli oggetti premiati dal lontano 1954, quando questa specie di Oscar ha cominciato a premiare i best of del disegno industriale. L’inaugurazione era inizialmente prevista per l’anno scorso, ma la pandemia ha fatto slittare il tutto. Ma adesso, tra caffettiere, sedie, lampade, il trionfo del made in Italy domestico ha finalmente il suo posto: in cui c’è anche molto spazio per la mobilità. “Del resto prima che fosse centrale elettrica l’edificio era un deposito di carrozze, quindi tutto torna”, dice al Foglio Mobilità Luciano Galimberti, presidente dell’Adi, l’Associazione del disegno industriale che ogni due anni incorona un massimo di venti oggetti (“dai circa 150 che vengono nominati nell’anno intermedio e che a loro volta sono presi da 2000 prodotti selezionati”. “È un premio molto selettivo”, dice Galimberti).

La mobilità, oggi settore centrale, anche per la rinascita delle città, vuol dire sempre meno auto. “Sono state in tutto undici premiate nei quasi settant’anni dal Compasso. Tra queste, oggi, esposte, la Abarth 1000 bialbero Zagato, Compasso d’Oro nel 1960, e la Ferrari Monza Sp1, premiata nel 2020. In sessant’anni è cambiato molto”, dice Galimberti. “Intanto le dimensioni, che emergono dall’allestimento della mostra in corso, Uno a uno. La specie degli oggetti. Abbiamo messo uno accanto all’altro oggetti simili prodotti e premiati in epoche diverse. Perché rappresentano una narrazione. Si capisce molto come cambiano le esigenze. Per esempio la Cinquecento, esposta nella prima e nell’ultima versione. Questa è grande il doppio della originale. O appunto l’auto sportiva, che negli anni Sessanta era mille di cilindrata, oggi è seimila. Un’altra auto cambiata tanto è la Panda, che non è esposta per ragioni di spazio ma che si inserisce nel filone: la Panda di Giugiaro era un mezzo incredibile, con una serie di novità tecniche; dalle sospensioni a balestra, ai vetri non curvati, agli interni tessili. Un concentrato di tecnologia e spartanità che oggi è difficile trovare”. La Panda, Compasso nel 1981 e poi nel 2004, rappresenta anche un cambio di approccio nel design. “L’auto per i designer è sempre stata un tema difficile, ed era più che altro un esercizio di stile”, continua Galimberti. “In tanti, compreso Gio Ponti, si sono cimentati nel progetto di macchine, che di solito però non entravano in produzione. Ma a un certo punto è cambiato l’approccio, la complessità del veicolo è più svincolato dall’estetica. Non solo la bellezza ma anche la funzione, che potremmo dire civile”. Certo a quarant’anni di distanza le due Panda e le due Cinquecento sono uguali solo di nome. Ma tutto si è ingrandito e modificato? Tutto è diventato più grande? “Non tutto: abbiamo fatto questo gioco anche per le sedie, per esempio, e come si può vedere le sedie impilabili degli anni Ottanta erano molto larghe di sedere, oggi sono molto strette. I tavoli invece negli anni Cinquanta erano bassi, oggi sono alti. È come se ci fossimo stretti e allungati”. Al contrario la macchina di sicuro è ingrassata. “Oggi anche la piccola utilitaria è ricca”, dice Galimberti. Forse anche per le dotazioni di sicurezza? Oggi auto come la Dyane o la R4, celebri ai tempi, forse non sarebbero più proponibili. “Non credo tanto”, dice Galimberti. “Penso sia più una politica di marketing. E credo che una macchina spartana avrebbe un gran successo anche oggi. Soprattutto tra i giovani. Ma c’è da dire che l’auto comunque non è più il sogno com’era ai miei tempi. Mia figlia che sta per compiere 18 anni per esempio non è particolarmente interessata. C’è lo sharing, c’è un certo distacco dal possesso”. E lei ne possiede una? “Ho un noleggio a lungo termine. La cambio ogni tre anni”.

Tra gli oggetti esposti che hanno a che fare con la mobilità ci sono anche le colonnine di ricarica dell’Enel che hanno vinto il Compasso l’anno scorso. “Perché mobilità vuol dire sempre più considerare non solo l’oggetto che ti sposta da un punto A a un punto B, ma tutta l’infrastruttura che c’è intorno”. Il Compasso riassume anche il modo in cui gli italiani si muovono. Cioè sempre meno su mezzi privati. “Per esempio, nel 1960 vennero premiati oltre alla Zagato 1000, il Flying Dutchman, una barca della Alpa, e l’aeroplano da turismo Falco F.8.L. della Aviamilano. Era il paese che si era messo in movimento, l’Italia del boom, che aveva voglia di muoversi individualmente. Ma negli anni successivi cominceranno a essere premiate anche soluzioni pubbliche”. Quindi ecco il Compasso alla Metropolitana milanese nel 1964: il leggendario design della “Rossa”, opera di Franco Albini, Franca Helg e Bob Noorda, e lì trionfano “sia l’idea del design come comunicazione integrata, perché la MM è il primo caso di identità coordinata 3d di un luogo, sia l’infrastruttura pubblica”. Oggi oltre alla metropolitana ecco monopattini, biciclette, l’impianto frenante in carbonio ceramico per vetture da strada di Brembo. “La bicicletta, per esempio, è irriconoscibile. È uno dei mezzi che è cambiato di più negli anni, con tante innovazioni: dalla ruote lenticolari senza raggi a quella oggi in fibra di carbonio. E poi le bici elettriche. Per la bici è un gran momento. È tornata protagonista, oggi, in relazione anche al dato climatico. Al Nord una volta si usava poco, ma adesso sta vivendo una seconda giovinezza”. Specialmente a Milano, nella città che sta faticosamente uscendo dal Covid.

Così l’Adi parteciperà all’avvenimento principale del ritorno alla normalità, il Salone del mobile, nella versione ideata da Stefano Boeri, prevista a settembre nei luoghi dell’Expo. “In concomitanza del Salone faremo un grande mostra a Rho e una serie di eventi al museo”. La città si riprenderà? “Lo speriamo proprio. Siamo ottimisti. E soprattutto siamo progettisti. E dunque, oltre a lamentarci, è nostro dovere dare delle risposte plausibili ai problemi”.

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