La vita incredibile di Monica, Lady F40 unica donna a lavorare sulla super car

L’hanno premiata anche a Las Vegas. Monica Zanetti, Lady F40, ha ricevuto il premio “La Bella Macchina”, assegnato da Concorso Italiano, come unica donna ad aver lavorato sulla Ferrari F40. 

Per dirlo come farebbe “un costruttore di macchine e un distruttore di uomini”, ossia Enzo Ferrari (definizione che gli diede la moglie del compianto pilota Luigi Musso): “Sono i sogni a far vivere l’uomo. Il destino è in buona parte nelle nostre mani, sempre che sappiamo chiaramente quel che vogliamo e siamo decisi ad ottenerlo. Se lo puoi sognare, lo puoi fare”. 

Monica prende il Commendatore (come lo chiama ancora oggi in segno di rispetto) alla lettera. Eredita la passione dallo zio, che lavora al reparto corse Ferrari quando lei è una bambina.  Sono gli anni ’70 e la casa in cui vive con la sua famiglia e con il fratello della mamma è frequentata da piloti, meccanici, collaudatori e il suo sogno nasce, cresce e si plasma su un modellino di Ferrari. Vuole lavorare in quell’azienda, nella divisione F1.

Il 1° febbraio del 1979, a 15 anni, appena uscita dall’IPSIA Alfredo Ferrari, viene assunta come meccanico motorista, ma poi decisero di metterla nel reparto carrozzeria sulle 208 GTS, Dino GT4 e la 308 GTS da subito amata da imprenditori, uomini di spettacolo, capitani d’industria e sportivi professionisti. Il secondo esemplare, ultimato nel 1977, è inizialmente un semplice prototipo per testare alcune componenti meccaniche, ma poi, intestato all’azienda stessa e targato MO 439235, è affidato come auto aziendale a Gilles Villeneuve a partire dal 30 ottobre 1978. Monica è incaricata della fase di assemblaggio di una porta di quel modello capolavoro, sollevando pesi notevoli, senza robot e diavolerie che entreranno nelle linee di produzione solo molti anni dopo. Sa usare morsa, martello, trapano. Qualcosa di incredibile per un topolino riccioluto come lei, che non si lascia intimidire. Stupisce tutti con capacità inaspettate e risolutezza. A lei non importa nulla di ciò che si può pensare dei limiti di una donna. Monica prova ad abbattere la barriera con quella che Thaler chiama “Nudge”, la spinta gentile. 

“Si attendevano che non ce l’avrei fatta fisicamente, ma io ero ostinata e non mi lasciavo trascinare in quelle dinamiche, perché comprendevo quanto, anche per loro, fosse difficile riuscire ad accettare che potessi farcela. Lottavo per eseguire tutto, anche se con difficoltà e tanta fatica, e ne ero felicissima. Non provavo risentimento e reagivo tirando fuori tutta la forza necessaria, anche per evitare che si pensasse che io potessi avanzare con altri mezzi. Volevo dimostrare tutto sul campo, ci tenevo che comprendessero come fossi fatta, che vedessero che avevo capacità e determinazione, quindi puntavo al mio obiettivo, senza dare il fianco ad attacchi facili. Quando vedevano che proprio la fatica era troppa, loro stessi venivano in mio soccorso, prima ancora che chiedessi aiuto, perché mi avevano capita.”

Diventa così un tecnico esperto di riferimento, aiutando anche nella risoluzione di problemi di assemblaggio sui prototipi.

“Ho avuto a che fare con il Commendatore in moltissime occasioni, perché era spesso in officina ed essendo unica donna chiedeva sempre di me. L’ho incontrato anche a tu per tu, grazie a Dino, il suo autista, di cui ero molto amica. Grande appassionata di F1, alla morte di Gilles Villeneuve, chiesi di potergli far vedere delle foto che avevo scattato ai box di Imola e Monza con i meccanici e Dino mi fece una sorpresa.

Io giocavo a tennis per il Team Ferrari, sui campi di Maranello. Quella sera arrivai ad allenarmi e mi dissero che il Commendatore mi aspettava. Indossavo una tuta mezza bucata, con un gonnellino che usavo solo in motorino e per giocare, ero imbarazzata. Entrai, rimasi pietrificata, e Gozzi (uomo vicino personalmente a Ferrari e dell’ufficio stampa) mi disse: “Beh non lo saluti?”. Mi fecero sedere di fronte a lui e mi chiese di cosa mi stessi occupando, come mi trovassi in azienda, mi disse che aveva saputo che ero una malata di Ferrari e così gli parlai della mia passione. Dopo, in dialetto, disse: “Gozzi, dam gli uciel ciera (dammi gli occhiali chiari)!”. Usava sempre occhiali scuri perché voleva vedere chi aveva di fronte, ma senza mostrare il suo stato d’animo, specie nei giorni di tensione. In quell’occasione si mise gli occhiali con lenti chiare e continuò a parlare con me, mi domandò a cosa aspirassi. Gli risposi che volevo la F1 e si mise a ridere, dicendomi che non si poteva. Era una richiesta troppo audace, ancora, per una donna. Eravamo vicini al GP di Monza, quindi chiesi i pass per andare ai box e lui incaricò Gozzi di provvedere. Allora rilanciai, perché volevo andare a Imola l’anno dopo, e lui acconsentì. Andammo avanti in questo poker ancora per un po’.

Alla fine, Dino mi disse: “Sai quando passa dagli occhiali scuri ai chiari? Quando si trova bene e non si fa problemi a mostrarsi, perché si fida”. Mi venne la pelle d’oca e ancora adesso mi torna, ripensandoci.”

Nell’87 topolino, soprannominata così perché, magra, piccolina, riccia e mora, si infila ovunque nelle macchine per riuscire a lavorare, viene chiamata in ufficio e quando succede “o sono belle o sono brutte”. Ci sono lei, Dado, Arnaldo, l’ing. Materazzi e il nostro responsabile di carrozzeria e reparto F40 il sig. Sergio Borsari figlio del famoso meccanico della Ferrari F1 Giulio Borsari, convocati per un progetto molto importante voluto proprio da Enzo Ferrari: la mitica F40, per celebrare il 40° anniversario. Uscita dalla penna di Pininfarina è una vera selvaggia, disegnata come una macchina da corsa ma per mangiare la strada, per la quale è omologata.  Il Commendatore ne è entusiasta e l’affida alle persone di fiducia, tra le quali la prima donna meccanico-carrozziere della storia del cavallino rampante.

“Ci dissero che sarebbero state prodotte 150 macchine e iniziammo a metà dell’87 perché Ferrari non stava molto bene e si voleva che potesse vederla nascere e crescere. Mi sono occupata di tutta la carrozzeria di una macchina che aveva finiture tipiche di prototipi da corsa. Non c’era, ad esempio, una maniglia, ma un cavo che apriva la serratura, la porta era da regolare sulla scocca, il cofano anteriore era difficile da montare, con motore a vista. Preparavo tutti gli elementi a banco e poi chiamavo delle persone ad aiutarmi a montarli in vettura, essendo il cofano molto pesante e grosso, tanto che neanche un uomo ce l’avrebbe fatta. Poi mi occupavo delle regolazioni di chiusura e profilatura e dei montaggi interni. Eravamo io e 3 uomini, loro impegnati su meccanica e cablaggi”. 

La topolina rampante si rende subito conto della memorabilità di quella macchina che tutti vogliono, tanto da esserci una lista d’attesa. Prima di Natale, l’Avvocato Agnelli ordina la sua F40, da ultimare entro le feste. L’Avvocato chiede un cambio semi-automatico. “Io non sapevo neanche cosa fosse un cambio semi-automatico. Alla fine, quando venne a ritirarla, ci ringraziò. Fu un’esperienza indimenticabile.” 

Come attestato di stima, il Commendatore chiede al collaudatore di far fare un giro di pista sulla F40 ai magnifici 4. Quando tocca a Monica, Giuseppe Cornia la lascia guidare per due giri, cosa assolutamente non consentita.

Quando la F40 comincia a essere prodotta in grandi numeri e non è più il progetto commemorativo di Enzo Ferrari, Monica decide di prenderne le distanze. Poco dopo viene promossa alla gestione di tutti i fornitori. “Ero un punto di riferimento, quindi mi volevano far crescere anche a livello dirigenziale e mi facevano gestire tutte le difficoltà. Ci tenevano a me”. Lei preferisce stare in officina, ma si adegua ritenendolo un segno di fiducia. Il suo sogno rimane quello di arrivare in F1, ed è accontentata per pochi mesi, nei momenti di picco delle presentazioni, che avvengono in pista o davanti all’officina. “Per una come me era un sogno che si realizzava, non mi sembra ancora vero.”

Nel secondo millennio parte il progetto di Jean Todt e Montezemolo, con il reparto corse in Maserati gestito dalla divisione F1 di Ferrari, in cui anche Monica è coinvolta. Vede Massa e Schumacher testare la MC12, poi sviluppata e  guidata da Andrea Bertolini che nel 2010 assieme a Bartels, ha vinto il campionato del mondo in Argentina. “Erano tutti meccanici di F1 Ferrari. Contribuimmo a far partire questo progetto. Fu meraviglioso, per i personaggi di rilievo che gravitavano intorno ad esso”.

Nel 2020 va in pensione con una nuova sfida: la Scuderia Belle Époque, di cui è titolare con i due soci, Pietro Ferrari e Rossana Guicciardi e dove Pietro Corradini, storico meccanico della Ferrari F1, ha il ruolo di coordinatore tecnico. 

Monica, il topolino rampante, grazie alla sua tenacia, ha dimostrato che, se puoi sognarlo, puoi farlo.

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