Il casco in bicicletta serve sempre, renderlo obbligatorio forse no.

Casco

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Biciclette, sicurezza stradale, salvaguardia delle vite umane e dei ciclisti, civiltà. Per fare conquistare una pioggia di like sui social basta mescolare per bene tutto questo. Va così da un po’, sono le parole magiche per colpire una parte, piccola ma sempre più consistente, di utenti che piano piano si stanno avvicinando alla bicicletta. D’altra parte il numero di chi ha iniziato a muoversi sui pedali in città è cresciuto costantemente negli ultimi anni e la pandemia ha accelerato questa tendenza. Ci sono però dei territori dove è meglio non avventurarsi. Perché a volte argomenti che sembrano soltanto una questione di lampante buon senso in realtà non lo sono. A volte basta approfondire un poco l’argomento per capirlo. Non sempre lo si fa. E arrivano i guai.

Uno di questi argomenti è il casco obbligatorio. Nei giorni scorsi sui social network il sindaco di Firenze, Dario Nardella, ha scritto: “Nel primo trimestre sono 44 i ciclisti deceduti, rispetto ai 37 del 2019: mai così tanti nella storia della mobilità in Italia. È un’emergenza a cui dobbiamo far fronte velocemente, per questo portiamo avanti la nostra iniziativa per la sicurezza stradale con l’Associazione Gabriele Borgogni Onlus. Il casco obbligatorio su bici e monopattini può salvare migliaia di vite. Una battaglia di civiltà necessaria”. I dati sono giusti. Aver parlato di emergenza è corretto. Portare avanti iniziative per incrementare la sicurezza stradale è importante. Pensare che l’introduzione del casco obbligatorio possa in qualche modo rappresentare un passo avanti per tutelare i ciclisti urbani è, più che ottimismo, miopia. Soprattutto se si correla questo al concetto di “battaglia di civiltà necessaria”. Non è così. E non perché il casco sia inutile, anzi. È un ottimo strumento di salvaguardia della calotta cranica, si rivela utile in molti casi, a volte salva la vita.

Indossare un caschetto è sicuramente consigliabile, battersi affinché sia reso obbligatorio non è “battaglia di civiltà necessaria”, anzi è controproducente per il miglioramento della sicurezza di chi va in bici. Il perché lo spiegò nel 2000 Jacob Buksti all’epoca ministro dei Trasporti danese: “L’idea di rendere obbligatori sistemi di protezione per i ciclisti in zone a bassa diffusione della bicicletta è un freno all’incremento del suo utilizzo. Viene fatta passare l’idea che il pedalare sia pericoloso e ciò è il modo migliore per disincentivarne l’uso. Non bastasse questo, far credere che il casco sia la panacea per la sicurezza dei ciclisti è il modo migliore per deresponsabilizzare gli automobilisti. La buona politica non può permettere che questo possa accadere: per aumentare la sicurezza stradale serve rendere consapevole chi guida un mezzo a motore del potenziale pericolo che può arrecare agli altri”. Tre anni dopo queste parole Buksti corresse il tiro, sottolineando che non solo nei paesi a bassa diffusione della bicicletta, ma anche in quelli dove questa è utilizzata da gran parte della popolazione, “rendere obbligatorio il casco non è consigliabile. Sarebbe solo un modo per distogliere l’attenzione dal principale pericolo per i ciclisti: la velocità delle autovetture”. Verso la fine del 2000 Buksti aveva commissionato a un’equipe di esperti (medici, urbanisti e ingegneri del traffico) uno studio per capire quali fossero i benefici dell’obbligatorietà del casco. All’epoca era argomento fortemente dibattuto in Danimarca a causa di una serie ravvicinata di decessi di persone in bicicletta. I risultati di questa ricerca, durati quasi due anni, furono presentati al suo successore, Flemming Hansen, del partito conservatore, sponda politica opposta rispetto al predecessore. Hansen all’inizio del suo mandato non aveva escluso la possibilità di introdurre l’obbligatorietà del caschetto. Cambiò idea. Il rapporto metteva nero su bianco che “tutte le persone che hanno perso la vita in bicicletta nel periodo analizzato (tra il 1998 e il 2001, nda) in Danimarca, sono morte in incidenti causati dalle automobili […]. L’utilizzo o meno del casco è stato nella quasi totalità dei casi non determinante. […] Nel 52 per cento dei casi il deceduto non indossava il caschetto, ma l’esito del sinistro non avrebbe lasciato comunque scampo al deceduto”. In sintesi il rapporto evidenziava che l’unico modo per diminuire i rischi per i ciclisti era quello “di diminuire la velocità media dei veicoli a motore”.

Le stesse conclusioni emergono da uno studio di un anno fa (febbraio 2020) richiesto dal governo neozelandese. In Nuova Zelanda il casco è obbligatorio dal 1994. Nei quattro anni precedenti le persone che utilizzavano la bicicletta erano aumentate di quasi il 90 per cento e il numero dei morti era salito a “un livello intollerabile” disse il premier di allora, Jim Bolger. In questi anni il numero dei morti annui è calato di circa il 30 per cento. Il che sembrerebbe un successo. Ma non è così. Perché sono calate anche le persone che vanno in bicicletta e la stima dei chilometri percorsi, determinando l’aumento del 134 per cento del tasso di rischio per i ciclisti (ossia l’incidenza di infortuni gravi e morte per numero di ore pedalate). Il team di esperti che hanno redatto il report ha consigliato governo guidato da Jacinda Ardern di rivedere le norme del codice della strada: abbassamento della velocità media, creazione di corsie ciclabili e progressiva eliminazione delle piste ciclabili esterne alla carreggiata nelle città, e reintroduzione della non obbligatorietà del casco. L’obbligatorietà potrebbe essere tolta. Staremo a vedere.

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