Il drive-in compie 100 anni. È terribilmente di moda.

Nel 1921 a Dallas nasceva il Kirby’s Pig Stand con il suo tetto a pagoda. In Cina erano tornati dopo la Sars. Russia, Germania e Corea ci pensano In Gran Bretagna ne hanno aperti una quarantina. Anche a Ostia ce n’è uno.

drive-in

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Il Covid ha cambiato il senso di tante parole e anche adesso chi dicesse: ti porto al drive- in, non riscuoterebbe grandi successi, con l’idea di tamponi e scafandri e lunghe code per raggiungerli più che di scintillanti spettacoli all’aperto.

Ma cent’anni fa, nel 1921, il drive-in fu un’assoluta novità, che prometteva polvere di stelle all’America arrembante di inizio secolo. Un’epopea nata per sfamare l’enorme corpo automobilistico del Paese che si apprestava a crescere, soprattutto motoristicamente, da otto a ventitré milioni di vetture nel giro di un decennio.

Il drive-in, prima dei tamponi e del cinema, nasceva infatti ristorante, con enormi parcheggi in cui si posteggiava ordinati e giovani camerieri portavano il cibo (non si diceva ancora delivery) ai passeggeri seduti comodamente negli interni in finta pelle. Gli automobilisti venivano serviti da giovani camerieri – “gli automobilisti sono diventati pigri! Non vogliono neanche più scendere dalle loro macchine”, teorizzava J.G. Kirby, fondatore del primo Kirby’s Pig Stand, che aprì a Dallas nel 1921, e offriva una scelta limitatissima a Coca Cola e costolette di maiale e sandwich di maiale fritto ma divenne presto una catena diffusa in tutta America, riconoscibile per l’estetica: un tetto a pagoda di tegole rosse su un edificio rettangolare incorniciato di legno e ricoperto di stucco.

Per vedere un drive in cinematografico bisognerà attendere un decennio, il 1933, quando venne brevettato a Camden, nel New Jersey, dal venditore di ricambi Richard M. Hollingshead Jr. Nel 1932, Hollingshead, che pare avesse una madre troppo corpulenta per entrare nelle poltroncine di un normale cinema, condusse degli esperimenti all’aperto nel suo giardino e dopo aver inchiodato uno schermo agli alberi nel suo cortile, posizionò un proiettore Kodak sul cofano della macchina e mise una radio dietro lo schermo, testando diversi livelli sonori coi finestrini dell’auto abbassati e alzati. Sistemò il giardino a terrazze in modo che tutte le automobili potessero avere una visione chiara dello schermo. Il 16 maggio 1933 gli fu concesso il brevetto numero 1.909.537. Il primo cinema drive in offriva 400 posti auto e uno schermo da 12 per 15 metri. Lo slogan era: “Tutta la famiglia è la benvenuta, indipendentemente da quanto rumorosi siano i bambini“. I drive-in offrivano scaldabiberon e distributori automatici di pannolini, e in seguito una serie infinita di amenità: campi da minigolf, piccole piste di aeroplani, voli in elicottero o in mongolfiera, piccoli zoo e comparsate di celebrità, o concertini di gruppi prima del film. In alcuni drive-in la domenica veniva celebrata la messa. Si sperimentò anche una versione diurna, con grandi tendoni oscuranti, ma non funzionò. Però al Johnny All-Weather Drive-In a Copiague, New York, 2.500 posti auto, uno dei più grandi d’America, c’era un enorme hangar in caso di pioggia, o semplicemente dotato di aria condizionata per l’estate più calda.

E ancora: piscine e persino motel sul terreno con finestre rivolte verso gli schermi in modo che gli spettatori potessero guardare i film dai loro lettoni. Il drive-in diventava l’alfa e l’omega del baby boom: bambini venivano concepiti guardando quei film sui teloni enormi, e poi da adulti compravano altre macchine, con un moltiplicatore infinito del sogno americano. Come tutte le invenzioni in anticipo sui tempi il primo drive in fu un fiasco e Hollingshead rivendette il cinema dopo soli tre anni. Ma intanto stava diventando “il” luogo dell’America del boom.

Già nel 1951 si contavano oltre 4.000 drive in America. Erano un’alternativa più economica ai cinema classico perché il costo di costruzione e manutenzione era minore di quello di un teatro. Il parcheggione con uso di cucina o di cinema era poi la piazza che le città americane non avevano mai avuto, era il teatro urbano: ci si andava per i date, per chiacchierare, per ascoltare la musica, sfuggendo dai genitori. Un topos dell’immaginario che finisce nei film: Happy Days, Grease, American Graffiti, tutte celebrazioni di quel mondo in cui l’auto rappresentava il sogno di libertà con l’hamburger intorno.

Poi, negli anni Settanta, dopo generazioni concepite sul sedile posteriore, il drive-in ebbe anche un’accezione peccaminosa: venne fuori tutta la nostalgia per quei luoghi di primi appuntamenti; mentre il fenomeno già tramontava. Già a partire dagli anni Sessanta il drive-in era in calo: con la tv che diventava a colori e via cavo e poi il vhs; i prezzi dei terreni nel frattempo aumentarono, così come quello della benzina. Alla fine degli anni ’80, il numero totale di drive-in ancora attivi sia negli Stati Uniti che in Canada scese a meno di duecento. Intanto, si erano espansi all’estero: in Italia il primo aprì a Roma, all’Eur, in uno spiazzo per 750 macchine. Il primo film proiettato fu “La nonna Sabella” di Dino Risi.

Ma in Italia la parola drive in richiama soprattutto lo show di Antonio Ricci che dal 1983 al 1988 catalizzò gli spiriti animali della domenica sera su Canale 5: e lì, in un altro tipo di boom, quello dell’Italia che risorgeva negli anni Ottanta, si riviveva una specie di Grease però con uno spettacolo totalmente italiano: procaci cameriere sui pattini portavano colorati vassoi in un’America ricostruita in studio a Cologno Monzese tra sketch poi leggendari: Has Fidanken, Teomondo Scrofalo, Una Brutta fazenda, l’Asta tosta, i baffetti da sparviero, il Bocconiano, il Paninaro. Per Fellini era «l’unico programma per cui vale la pena di avere la tv».

Adesso, col Covid, il drive in ha assunto un significato tutto diverso: e però qualcuno comincia a pensare di tornare all’originale.

Invece che andarsi a infossare, tamponati, al chiuso di un vecchio cinema, infilarsi in macchina sotto le stelle è tornato a essere invitante. Del resto, anche negli anni Cinquanta il drive in era “venduto” come un’alternativa più igienica ai classici cinema: nel 1955 una campagna li promuoveva come “un posto dove sarai protetto dalla polio”, dopo la grande epidemia che aveva decimato gli Stati Uniti.

E anche in Cina nel 2003, dopo la Sars, i drive in conobbero un insperato successo. Adesso stanno tornando: in Gran Bretagna, col Covid, ne sono entrati in funzione una quarantina. Russia, Germania, Corea del Sud sono altri paesi che si stanno attrezzando.

Anche a Ostia, vicino Roma, ha aperto quello che si definisce il drive in più grande d’Europa, il “Paolo Ferrari”, dal nome del fondatore del primo cinema all’aperto di sessant’anni fa. Schermo gigantesco, 30×15, 450 posti auto, e duecento sdraio per motociclisti. Si può mangiare in auto, con cibo che viene consegnato da solerti fattorini in bicicletta. Magari sognando la California, anche stando a Ostia.

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