Come crescono le città nelle idee di De Lucchi

“I problemi principali restano la mobilità e la separazione tra centro e periferie.Studio le Happy Stations, una tipologia di condomini innovativi e sperimentali”

Michele De Lucchi

Michele De Lucchi

Mentre la vita ritorna nelle città, mentre siamo finalmente in vista della fine dell’incubo, come cambiano (se cambiano), queste nostre amate/odiate città? E come cambierà il nostro modo di viverci e lavorarci? A Milano vengono annunciati grandi progetti come la riqualificazione di piazzale Loreto, ed è tutto un ripensare la mobilità con ciclabili e urbanistica “tattica”.

Va tutto bene”, dice al Foglio Mobilità Michele De Lucchi, fondamentale architetto e designer, a suo agio sia con la piccola scala del design, che con la progettazione di uffici (sua quella delle Poste gialle e blu) fino a creare intere parti di città a Tbilisi, in Georgia. “E però nelle città, oltre a quello della mobilità, rimane il problema principale, che è la separazione tra i centri storici e le periferie, dove i primi sono un tema di conservazione e di rapporti con le soprintendenze, mentre le periferie hanno un problema di identità”. “Le periferie sono sempre state disegnate in virtù dell’omologazione”, dice De Lucchi. “Ce lo insegnavano proprio, a disegnare così, all’università: una casa sopra l’altra. Più omologanti erano le abitazioni più ci sembrava di colpire nel segno”. “Oggi invece bisogna creare delle identità nelle periferie. E riflettere sul concetto di condominio, che è la comunità minima e più controllabile ma anche quella più ‘fuori controllo’. Lo capisci subito se sei mai stato in una assemblea di condominio”. In effetti il centro della conflittualità: se ce la fai a domare un’assemblea di condominio, puoi candidarti alla Casa Bianca. “E allora come possiamo fare per creare una società un po’ più comprensiva e socializzante se viviamo – letteralmente – sotto lo stesso tempo col coltello in tasca l’uno con l’altro? Come fare a ridisegnare un condominio che non sia solo la somma di spazi privati omologati e aggregati insieme?”. In queste roccaforti della convivenza urbana, gli spazi comuni sono considerati un di più, “le scale sono sempre più piccole e buie, perché son spazi inutili nella testa del costruttore”. Però pare di assistere, nel post-Covid, sempre più a una condominializzazione della vita cittadina: si vedono progetti di compound sempre più all’americana, passi la vita lì dentro, la palestra, il verde, e le sbarre fuori. “Sì, verissimo, in qualcuno c’è anche l’asilo nido condominiale. Ma quello che manca è far sì che le persone che ci abitano siano in qualche modo rappresentate. Che abbiano qualcosa in comune”.

De Lucchi porterà alla Biennale d’Architettura di Venezia che apre nei prossimi giorni l’ultimo capitolo delle sue “Earth Stations”, una sperimentazione sulla città e l’abitare che ha sviluppato negli ultimi anni. Di questo studio fanno parte anche le Happy Stations: una tipologia di condomini innovativi e sperimentali. “Avremmo anche potuto chiamarle Happy Community Stations”, continua De Lucchi, “proprio perché sono disegnate attorno alle ragioni di un gruppo e non attorno a quelle dei singoli individui. Nella progettazione di un condominio si parte solitamente dalla distribuzione degli appartamenti all’interno di un volume o di un’area predefinita e si cerca di destinare più spazio possibile ad uso abitativo. Ne derivano blocchi di appartamenti (uno sopra l’altro, uno di fianco all’altro) per cui l’immagine del condominio è costituita dall’unione di tante diversità incasellate all’interno di una griglia che le contiene nel tentativo di omologarle. Nelle Happy Stations questa modalità di progettazione è completamente scardinata: in primo piano non ci sono più le case private ma gli spazi comuni, chiamati laboratori, che sono rappresentazione e simbolo delle ragioni di scelta di un determinato condominio. Abbiamo esemplificato cinque possibili ragioni per cinque possibili laboratori, diventati poi il fulcro attorno a cui sviluppare il progetto di architettura. Così, il condominio che accoglie generazioni, culture, posizioni diverse sorge sopra una piattaforma per eventi comunitari e attività di interesse sociale e interculturale (Iridescent Community). Il condominio per appassionati di orticoltura non è una casa con annesso un orto ma un orto con delle case intorno (Green Community). Il complesso per i professionisti pone l’attenzione sul tetto, trasformato in spazio di lavoro (Blue Community). Il condominio per amanti di libri e lettura è una grande biblioteca su cui si innestano gli appartamenti (Gold Community). Infine quello per gli appassionati di artigianato, hobbistica, meccanica ed elettronica trasforma i vani scala in officine e laboratori per attività manuali (Bright Community)”. “Per ora è un progetto completamente teorico, fantasioso”, dice l’architetto, che negli anni Settanta fece parte del gruppo del Radical Design, studiando nuove forme dell’abitare anche comunitario e in rapporto alla natura. “Ma progettare pensando alla ragione della comunità cambia completamente il rapporto architettonico fra spazio privato e spazio pubblico, che invertono il loro ordine di grandezza, perché qui è lo spazio condiviso a caratterizzare l’edificio come emblema dell’identità di un gruppo di persone, di una comunità. Le aree comuni inoltre compendiano le abitazioni private, agevolando l’abitabilità e la confortevolezza di appartamenti che possono risultare molto piccoli“.

Intanto, la vita torna appunto alla normalità: De Lucchi continuerà ad alternarsi tra Milano e la sua casa-studio di Angera, sul lago Maggiore, come fa da trent’anni. E a odiare il cosiddetto smart working. “Quello che mi è mancato è soprattutto guardare le persone negli occhi”, dice convinto. “Se ti parlo al computer, sembra comunque che guardi da un’altra parte. Come in Georgia: lì solo le donne ti guardano negli occhi, ma gli uomini hanno ancora il retaggio militare sovietico, guardano da un’altra parte. Ecco cosa produce la mancanza di libertà. La città è proprio il contrario. E’ poter guardare le persone negli occhi. Ed è ora di tornare a farlo”.

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