La Cina regno dell’auto: primo mercato green

La mobilità è uno degli aspetti fondamentali della vita culturale ed economica del paese. Le vendite di veicoli a nuova energia aumenteranno del 40 per cento nel 2021, fino a 1,8 milioni di unità.

Sulle strade di Pechino

Sulle strade di Pechino

Lo chiamavano il regno della bicicletta, oggi è il mercato dell’auto più grande del mondo. Per produzione e per vendite. Ed è anche il più innovatore, grazie all’enorme impulso che il governo di Pechino sta dando alla produzione e alla vendita di auto a energia alternativa.

Del resto la mobilità è uno degli aspetti fondamentali della vita culturale ed economica cinese, e non parliamo solo di veicoli privati ma anche di mezzi pubblici: ci si sposta all’interno delle città e delle megalopoli, che hanno un ruolo vitale nell’economia del paese, ma ci si sposta all’interno del paese, per esempio durante i quaranta giorni delle festività per il Capodanno cinese, il Chunyun, definita spesso “la più grande migrazione umana al mondo”. Sono giorni in cui treni, aerei, strade e traghetti sono stracolmi di persone che tornano a casa per stare con le famiglie – si parla di una media di tre miliardi di viaggi complessivi-; l’anno scorso, nonostante l’inizio dell’epidemia nella città di Wuhan, sono stati staccati più di quattrocento milioni di biglietti ferroviari. 

Con la trasformazione della Cina nella seconda economia del mondo, nel corso degli ultimi decenni anche la mobilità cinese si è completamente rinnovata. Per gran parte del Novecento la bicicletta il più importante mezzo di trasporto per i cinesi, così importante che il Partito comunista, quando arrivò al potere nel 1949, ne fece un simbolo del progresso del proletariato. La Cina era, come la definì Alberto Moravia nelle sue cronache dal Dragone, “un paese povero ma senza ricchi”, un posto in cui la ricchezza non era un termine di paragone, come in occidente. Gli operai come le élite si spostavano in bicicletta, e il mercato delle due ruote è stato spesso usato come esempio complesso per raccontare l’evoluzione economica della Cina.

E gran parte di questa storia ha inizio negli anni Cinquanta, quando Mao Zedong capisce l’importanza di sostenere la mobilità e dà nuovo impulso alle aziende che iniziavano a produrre le biciclette nel paese, che fino ad allora erano soprattutto d’importazione. Nasce la Flying Pigeon, il simbolo più importante dell’evoluzione del mercato ciclistico, che ancora oggi è una marca di culto, e nel giro di dieci anni la Cina inizia a produrre milioni di biciclette. Quando arriva alla presidenza della Repubblica popolare, Deng Xiaoping promette riforme e sviluppo economico, e “una Flying Pigeon in ogni casa”.

In un reportage del 1988, lo storico corrispondete del New York Times, Nicholas Kristof scrive che “è con la bicicletta che la Cina ha raggiunto il vero comunismo”: “Andare in bicicletta a Pechino è semplice, perché non ci sono regole da imparare. Tutti si muovono lentamente, in modo che sia relativamente sicuro. Di certo andare in bicicletta a Pechino non ha nulla a che vedere con le missioni suicide dei ciclisti di Manhattan. Un ciclista in Cina può sembrare intenzionato a buttarti giù, ma lo farà così lentamente che avrà sempre il tempo di frenare all’ultimo minuto ed evitare la collisione. Gli statistici cinesi dicono che ci sono 225 milioni di biciclette nel paese di 1,06 miliardi di persone. Nella sola Pechino, che conta circa 10 milioni di persone, ci sono 5,6 milioni di biciclette. In una città tentacolare con mezzi pubblici mediocri, le biciclette ti salvano la giornata, dice un expat. Quasi tutti vanno al lavoro e fanno commissioni in bicicletta. Secondo un calcolo del governo, il 76 per cento dello spazio stradale a Pechino è occupato da ciclisti”.

Il simbolo della realizzazione del comunismo ben presto cambia, perché insomma, lo avrete capito: era un trucco. 

Il mercato dell’automobile in Cina non si era ancora sviluppato, e quando lo fa, grazie al progressivo abbassamento della povertà soprattutto nelle aree urbane, la bici viene lasciata in garage. Se negli anni Cinquanta nel paese ogni mille abitanti c’erano 0,5 automobili, il discorso si rovescia a metà degli anni Novanta, quando il governo di Pechino inizia a incentivare l’acquisto di auto private. Già da qualche anno la produzione di auto in Cina era cambiata grazie agli investimenti fatti dalle grandi aziende automobilistiche giapponesi e sudcoreane, come Honda, Hyundai, Kia. Ma le aperture di Deng restano limitate: se vuoi entrare nel mercato del paese devi fare accordi con la produzione locale.

L’industria si sviluppa così tanto che nel Duemila la Cina è in grado di produrre 2 milioni di veicoli l’anno – ma nel 2019 passa a oltre 25 milioni, il 28 per cento della produzione globale di auto. La borghesia si arricchisce, le città cambiano, e con loro le esigenze di spostamenti ma soprattutto i simboli. Quando nel 1994 il Consiglio di stato cinese pubblica l’“Automobile Industry Production Policy” è già in piedi la mastodontica missione di modernizzazione della Cina: la bicicletta diventa un sistema di trasporto antico e obsoleto, le bici lentamente spariscono dalle grandi città.

E il problema è pure un altro: con la produzione industriale al massimo, e la circolazione delle auto che aumenta, nel frattempo l’inquinamento urbano diventa un problema gigantesco.

E quindi? Si cambia di nuovo. 

Il passaggio alle energie rinnovabili è presente già nell’undicesimo Piano quinquennale di Pechino (2006-2010), ma è soprattutto con l’arrivo del presidente Xi Jinping che in Cina si comincia a parlare di ecologia, di green e sostenibilità.

La politica lo fa per un vantaggio essenziale per le mire d’influenza strategica cinese: emanciparsi dal bisogno di carbone, petrolio e materie prime. Ma contemporaneamente nasce una nuova classe di consumatori, più ricchi, che vivono online, conoscono il mondo e sono attenti alla questione ambientale. È così che gli economisti si spiegano l’enorme successo che ha avuto per lungo tempo nelle grandi città il bike sharing: il simbolo della povertà comunista che torna un mezzo di trasporto utile, green e sostenibile, perché non di proprietà. E anche il mercato delle auto cambia radicalmente: secondo l’Associazione cinese dei produttori d’auto, dopo l’espansione in Cina dell’americana Tesla e gli incentivi statali, le vendite di veicoli a nuova energia (quindi non a benzina o diesel) in Cina aumenteranno del 40 per cento nel 2021, fino a 1,8 milioni di unità.

Ma non c’è solo la questione dell’alimentazione, cruciale per Pechino – la produzione di auto elettriche è appena entrata di diritto nella Nuova Via della Seta, il progetto strategico d’influenza globale della Cina, dopo che l’azienda statale cinese FAW e l’americana Silk hanno firmato una joint venture per produrre auto di alta gamma full electric e plug-in in Emilia-Romagna. L’altra questione essenziale è l’auto intelligente: la Cina mira a far sì che i veicoli con tecnologia a guida autonoma parziale siano almeno la metà di tutte le vendite di auto nuove entro il 2025. Serve un piano quinquennale di mobilità.

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