Fiat bici, nella terra delle Fiat. L’Italia post-pandemica strizza l’occhio all’Olanda: 193 km di nuove piste, due milioni di biciclette vendute nell’ultimo anno, e-bikes al +44 per cento sul 2019.
Un’onda sostenibile da cavalcare, imparando dai migliori: “Tutti pensano ai Paesi Bassi come all’eden della pedalata. Ma non è sempre stato così”, racconta Lucas Harms, direttore generale della Dutch cycling embassy che da oltre 40 anni diffonde la cultura delle due ruote nel mondo. “Nel dopoguerra erano finite in disuso anche da noi, il boom delle auto ci portò gravi problemi di traffico. Incidenti e morti. Soprattutto giovani”. Fu l’urlo delle madri a cambiare per sempre le città. “Stop de Kindermoord”, mai più strage di bambini, “era lo slogan del movimento civico che diede l’input per la svolta: nel 1975 nacque l’Unione del ciclismo, a cui seguirono politiche per l’ampliamento degli spazi, maggiori infrastrutture e sicurezza. Incentivando sistematicamente l’uso delle biciclette: da alcuni piccoli esperimenti urbani presto si passò a una visione olistica per connettere le città fra loro. Oggi ormai ogni nuovo intervento pubblico avviene se e solo se bike friendly: per rafforzarne il network, la praticità dei percorsi e l’appeal complessivo. Andare in bici dev’essere in primis una scelta che conviene”. A partire dalle tutele del quotidiano: in ogni città olandese le strade sono per due terzi pista ciclabile, i semafori calibrati per chi pedala – chi guida aspetta, chi va a piedi allunghi il passo. E poi c’è il peso schiacciante della giustizia: “Nel 99 per cento degli incidenti macchina-bicicletta la colpa è dell’autista”, spiega Meredith Glaser, professoressa di urbanistica presso l’Università di Amsterdam. Se l’Ambasciata è l’intermediario pubblico-privato, l’Urban cycling institute dove lei è ricercatrice si occupa di fornire know-how accademico ai progetti di mobilità sostenibile: “Una società a misura di bici responsabilizza chi ne fa uso. E i nostri ultimi studi evidenziano che la pandemia, anche fuori dall’Olanda, è un’occasione imperdibile per ridisegnare gli spazi pubblici”, si pensi al precario incastro fra traffico in centro e plateatici. “Basterebbe convertire infrastrutture già esistenti: più una città ha diversità di risorse, più esistono combinazioni efficaci della sua rete di trasporti. Strade, ferrovie, pedonalità. L’interesse per le due ruote è già globale: si tratta di coinvolgere puntando su sicurezza e accessibilità. A seconda delle caratteristiche di ciascun paese”.
L’Italia ha i suoi svantaggi naturali: estensione, montuosità. E un innato debole per il volante: nell’Ue solo il Lussemburgo – fonte Acea – ha un tasso di motorizzazione più alto. “La vostra sfida clou”, di nuovo Harms, “sarà sviluppare un piano per le auto di pari passo con quello per la viabilità green. Ripensare alla circolazione del traffico, garantire parcheggi adeguati negli snodi principali. Mentre l’exploit delle e-bikes oggi consente davvero di coprire le distanze e appianare le salite. Così arriviamo ai treni: la loro integrazione con le piste ciclabili è essenziale”. A bordo ma non solo: nel 2019 la stazione di Utrecht ha aperto la parking area a due ruote più grande del mondo, 12.500 posti. “Servizi che incoraggiano i cittadini. E sullo sfondo una campagna di sensibilizzazione sui benefici del ciclismo per ambiente e salute, insieme all’appoggio bipartisan delle istituzioni: solo l’armonia di questi fattori potrà spingere le macchine fuori dalle città”. Domanda inevitabile: il settore auto, circa il 10 per cento del Pil italiano ma in piena crisi, si lascerà scalzare? “Bikenomics”, rispondono gli esperti. “Se migliorano le condizioni d’uso delle biciclette si generano esternalità positive su più fronti della società. Macchine comprese: crescerebbe il loro costo relativo, ma anche la qualità della guida grazie al traffico più fluido. L’Olanda dimostra che non c’è trade-off. Le auto non sono sparite. E il ciclismo urbano resta una filosofia da perfezionare. Mica abbiamo finito”.
Qui è ora di cominciare.