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Come crescono le città nelle idee di De Lucchi

“I problemi principali restano la mobilità e la separazione tra centro e periferie.Studio le Happy Stations, una tipologia di condomini innovativi e sperimentali”

by Michele Masneri
26/05/2021
in L'Intervista
Michele De Lucchi

Michele De Lucchi

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Mentre la vita ritorna nelle città, mentre siamo finalmente in vista della fine dell’incubo, come cambiano (se cambiano), queste nostre amate/odiate città? E come cambierà il nostro modo di viverci e lavorarci? A Milano vengono annunciati grandi progetti come la riqualificazione di piazzale Loreto, ed è tutto un ripensare la mobilità con ciclabili e urbanistica “tattica”.

“Va tutto bene”, dice al Foglio Mobilità Michele De Lucchi, fondamentale architetto e designer, a suo agio sia con la piccola scala del design, che con la progettazione di uffici (sua quella delle Poste gialle e blu) fino a creare intere parti di città a Tbilisi, in Georgia. “E però nelle città, oltre a quello della mobilità, rimane il problema principale, che è la separazione tra i centri storici e le periferie, dove i primi sono un tema di conservazione e di rapporti con le soprintendenze, mentre le periferie hanno un problema di identità”. “Le periferie sono sempre state disegnate in virtù dell’omologazione”, dice De Lucchi. “Ce lo insegnavano proprio, a disegnare così, all’università: una casa sopra l’altra. Più omologanti erano le abitazioni più ci sembrava di colpire nel segno”. “Oggi invece bisogna creare delle identità nelle periferie. E riflettere sul concetto di condominio, che è la comunità minima e più controllabile ma anche quella più ‘fuori controllo’. Lo capisci subito se sei mai stato in una assemblea di condominio”. In effetti il centro della conflittualità: se ce la fai a domare un’assemblea di condominio, puoi candidarti alla Casa Bianca. “E allora come possiamo fare per creare una società un po’ più comprensiva e socializzante se viviamo – letteralmente – sotto lo stesso tempo col coltello in tasca l’uno con l’altro? Come fare a ridisegnare un condominio che non sia solo la somma di spazi privati omologati e aggregati insieme?”. In queste roccaforti della convivenza urbana, gli spazi comuni sono considerati un di più, “le scale sono sempre più piccole e buie, perché son spazi inutili nella testa del costruttore”. Però pare di assistere, nel post-Covid, sempre più a una condominializzazione della vita cittadina: si vedono progetti di compound sempre più all’americana, passi la vita lì dentro, la palestra, il verde, e le sbarre fuori. “Sì, verissimo, in qualcuno c’è anche l’asilo nido condominiale. Ma quello che manca è far sì che le persone che ci abitano siano in qualche modo rappresentate. Che abbiano qualcosa in comune”.

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De Lucchi porterà alla Biennale d’Architettura di Venezia che apre nei prossimi giorni l’ultimo capitolo delle sue “Earth Stations”, una sperimentazione sulla città e l’abitare che ha sviluppato negli ultimi anni. Di questo studio fanno parte anche le Happy Stations: una tipologia di condomini innovativi e sperimentali. “Avremmo anche potuto chiamarle Happy Community Stations”, continua De Lucchi, “proprio perché sono disegnate attorno alle ragioni di un gruppo e non attorno a quelle dei singoli individui. Nella progettazione di un condominio si parte solitamente dalla distribuzione degli appartamenti all’interno di un volume o di un’area predefinita e si cerca di destinare più spazio possibile ad uso abitativo. Ne derivano blocchi di appartamenti (uno sopra l’altro, uno di fianco all’altro) per cui l’immagine del condominio è costituita dall’unione di tante diversità incasellate all’interno di una griglia che le contiene nel tentativo di omologarle. Nelle Happy Stations questa modalità di progettazione è completamente scardinata: in primo piano non ci sono più le case private ma gli spazi comuni, chiamati laboratori, che sono rappresentazione e simbolo delle ragioni di scelta di un determinato condominio. Abbiamo esemplificato cinque possibili ragioni per cinque possibili laboratori, diventati poi il fulcro attorno a cui sviluppare il progetto di architettura. Così, il condominio che accoglie generazioni, culture, posizioni diverse sorge sopra una piattaforma per eventi comunitari e attività di interesse sociale e interculturale (Iridescent Community). Il condominio per appassionati di orticoltura non è una casa con annesso un orto ma un orto con delle case intorno (Green Community). Il complesso per i professionisti pone l’attenzione sul tetto, trasformato in spazio di lavoro (Blue Community). Il condominio per amanti di libri e lettura è una grande biblioteca su cui si innestano gli appartamenti (Gold Community). Infine quello per gli appassionati di artigianato, hobbistica, meccanica ed elettronica trasforma i vani scala in officine e laboratori per attività manuali (Bright Community)”. “Per ora è un progetto completamente teorico, fantasioso”, dice l’architetto, che negli anni Settanta fece parte del gruppo del Radical Design, studiando nuove forme dell’abitare anche comunitario e in rapporto alla natura. “Ma progettare pensando alla ragione della comunità cambia completamente il rapporto architettonico fra spazio privato e spazio pubblico, che invertono il loro ordine di grandezza, perché qui è lo spazio condiviso a caratterizzare l’edificio come emblema dell’identità di un gruppo di persone, di una comunità. Le aree comuni inoltre compendiano le abitazioni private, agevolando l’abitabilità e la confortevolezza di appartamenti che possono risultare molto piccoli“.

Intanto, la vita torna appunto alla normalità: De Lucchi continuerà ad alternarsi tra Milano e la sua casa-studio di Angera, sul lago Maggiore, come fa da trent’anni. E a odiare il cosiddetto smart working. “Quello che mi è mancato è soprattutto guardare le persone negli occhi”, dice convinto. “Se ti parlo al computer, sembra comunque che guardi da un’altra parte. Come in Georgia: lì solo le donne ti guardano negli occhi, ma gli uomini hanno ancora il retaggio militare sovietico, guardano da un’altra parte. Ecco cosa produce la mancanza di libertà. La città è proprio il contrario. E’ poter guardare le persone negli occhi. Ed è ora di tornare a farlo”.

Tags: Biennale d'Architettura di VeneziaEarth StationsHappy StationsMichele De LucchiMilano

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